“Fiction snobba politica ma Colle tema da serie tv”

(Adnkronos) – “La fiction italiana gira da sempre curiosamente alla larga dalla politica di casa nostra. Mentre in Inghilterra la serie The Crown ha raccontato il paese attraverso il succedersi delle generazioni della casa reale e mentre negli Stati Uniti il cinico Frank Underwood è sembrato anticipare in House of Cards l’avvento della spregiudicatezza trumpiana, noi non andiamo mai oltre qualche docufiction dedicata a personaggi amati, archiviati e un po’ dimenticati. Ma nulla, mai, che accenda la fantasia del racconto politico.

Ora, si dirà che di politica in televisione se ne vede anche troppa, e che magari non è il caso di esagerare invadendo un campo che vorrebbe essere riservato alla fantasia e non alla cronaca (tantomeno al tifo). Vero, ma solo fino a un certo punto. Infatti un conto è l’eccessiva invadenza della politica nelle cronache televisive. Altro conto è la capacità di trarre dalla politica qualche spunto per intrecciare narrazioni capaci a un tempo di far riflettere e far evadere. In questo caso, su tratta di cogliere dalla storia politica quel tratto di umana avventura che la rende avvincente e fantasiosa, anche se magari non sempre del tutto corrispondente alla più rigorosa verità storica. Cosa che peraltro avviene con profusione di mezzi in quasi tutte le democrazie con le quali abitualmente ci confrontiamo.

E’ curioso. Siamo il paese di Machiavelli -che la scienza politica l’ha addirittura inventata. Siamo un laboratorio di formule, schemi, combinazioni che diverte, inquieta e fa arrabbiare gli appassionati politici di tutto il mondo. Siamo un popolo che alla politica affida -da secoli, si può dire- una gran parte dei suoi affanni e delle sue fortune. Eppure in televisione la politica la vediamo solo nella sua ufficialità -a volte un po’ tetra- e mai con i colori della sua, e nostra, immaginazione.

E’ come se tutta la quantità di politica che maciniamo quotidianamente esaurisse ogni nostra attenzione, lasciandoci solo il registro della propaganda dei suoi troppi proclami o all’opposto il registro di una diffidenza diffusa che tende a non credere più a nulla.

Negli anni scorsi aveva furoreggiato in tutto il mondo una serie danese, Borgen. Raccontava le vicissitudini di potere di quel paese facendolo somigliare sotto molti aspetti al Transatlantico di Montecitorio. Governi instabili, che vanno e vengono. Partiti che si fanno e si disfano da un giorno all’altro. Passaggi di campo come se non ci fosse un domani. Conflitti di interesse uno dietro l’altro. Corridoi affollati da trafficanti di dubbia moralità. La cosa curiosa di quella serie è che ogni tanto si alludeva al nostro paese, e alla sua politica, con un certo sdegno, come fossimo noi, tipicamente, la sentina di tutti i pubblici vizi possibili e immaginabili.

In Borgen compariva perfino una citazione del bersaniano giaguaro da smacchiare. Per non dire delle mille manifestazioni di quello che un tempo si sarebbe detto lo ‘spirito fiorentino’. Come a dire che da noi capita sempre, letteralmente, di tutto. Il massimo dell’intrigo e il massimo della frivolezza -insieme.

Così, paradossalmente, finiamo con l’offrire argomenti alla fiction altrui senza mai riuscire a trarre da quegli stessi argomenti qualche frammento di racconto per noi stessi. E infatti, di tutto il materiale che la nostra politica confeziona finiamo sempre per non saper bene cosa farne. Distillata negli alambicchi più preziosi delle nostre antiche botteghe artigiane, la politica di casa nostra sembra non prestarsi mai a nessuna fiction. In compenso, ci inonda di propaganda, non così convincente. E si espone a un certo dileggio, forse non così meritato.

Il fatto è che noi, forse più di tutti, alla politica paghiamo il prezzo della nostra consuetudine e perfino quello della sua quotidiana invadenza. Potremmo ricavarne in cambio quel sottile divertimento che alle volte il racconto televisivo può offrire. E invece ci dilettiamo a guardare solo le serie confezionate a Capitol Hill o a Buckingham Palace, non avendone a disposizione di nostre. Come se accendere una telecamera sul set di un Quirinale immaginario fosse poi così disdicevole”.

(di Marco Follini)

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