Di Donato: «Dal sisma ferite ancora non guarite»

 Le ferite della sua città, invece, le ha guardate in faccia una per una fin dai primissimi momenti dopo quell’interminabile scossa di terremoto. «Ero nel mio studio a piazza IV Novembre – ricorda nel giorno del 30esimo anniversario – e mi sono precipitato al Palazzo del Governo temendo di trovare notizie catastrofiche». Ma senza cellulare, senza Internet, senza neanche il televideo, con le linee telefoniche impazzite, l’unico modo per fare il punto della situazione era verificarla di persona, durante le tappe di un frenetico sopralluogo che quella notte lo hanno portato da un quartiere all’altro della città, e soprattutto nel centro storico dove tante case non avevano resistito alla furia del sisma. «Ricordo di aver disposto che venisse sospesa l’erogazione idrica e quella di gas per evitare esplosioni – racconta – e di aver fatto aprire la villa comunale perché le persone potessero rifugiarvisi. Faceva freddo, e qualche albero fu sacrificato per accendere i fuoco». E poi gli accampamenti temporanei nelle scuole (poi per i senzatetto furono aperte le case inutilizzate, prima che al governo venisse la stessa idea), la conta dei danni, davvero tanti, e la preoccupazione che a Benevento non toccasse ancora il destino beffardo del 1962, quando non fu inclusa nei comuni danneggiati e perdette il treno della ricostruzione. «Il 24 novembre alle 9 – ricorda Di Donato – chiamai al telefono i senatori Ricci e Tanga, i deputati Zarro e Mastella, i consiglieri regionali Delcogliano, Mazzoni e Melone, chiedendo il massimo impegno perché la città ottenesse l’aiuto che meritava. E nel giro di pochi giorni feci arrivare il presidente della Giunta regionale, l’assessore e il provveditore alle opere pubbliche e il commissario Zamberletti perché constatassero quanto il sisma avesse colpito case, infrastrutture, edifici pubblici e le attività produttive. Io stesso, nei mesi successivi, mi sono recato a Napoli per sostenere la causa di Benevento un giorno sì e uno no». La sua perseveranza, insomma, ha fatto sì che la città potesse contare su fondi cospicui per la ricostruzione, «ma quando arrivarono io non ero più sindaco, e il Consiglio comunale decise che solo il 30-40% delle risorse complessive fosse assegnato ai privati per rimettere in sesto l’edilizia abitativa. In tanti, nei quartieri più colpiti come il Triggio e l’area di San Vittorino, scelsero di abbandonare ciò che restava delle case, e quelle ferite nel tessuto urbano hanno prodotto cicatrici che non si sono ancora rimarginate».

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